Quanto ricordiamo di ciò che leggiamo o vediamo su internet?
Se tentiamo di fare mente locale su quella che è stata la nostra attività nella rete durante le ore o i giorni passati probabilmente poche cose riusciremo a recuperare dalla memoria. Proviamo a chiedere di fare questa cosa ad un bambino o ad un adolescente rispetto a ciò che ha visto poco prima su tik tok, instagram, facebook, twitter o qualche altro social, e non sarebbe una sorpresa constatare che vi direbbe che ricorda poco o nulla.
Eppure passiamo ore e ore ogni giorno a scrollare pagine, condividere contenuti, guardare foto e filmati. In effetti per molti di noi controllare notifiche e aggiornamenti sul cellulare è la prima cosa che facciamo appena ci svegliamo e l’ultima prima di addormentarci. Tra questi due momenti la giornata è scandita da innumerevoli accessi alla rete, magari pochi secondi alla volta, ma che sommati raggiungono un tempo che secondo alcune indagini si aggira tra le tre e le sei ore nell’arco di un giorno. Senza contare l’utilizzo di altri dispositivi come playstation, computer, televisione.
Una quantità di tempo enorme quindi se raffrontata a quanto ne dedichiamo ad altre attività (chi tra di noi parla con la propria moglie, il proprio marito, il proprio figlio un minimo di tre ore al giorno?).
Eppure, di questo tempo, spesso ricordiamo ben poco. Poco raccogliamo, di poco ci arricchiamo, poco conserviamo.
La domanda può sembrare banale: ma allora, a cosa ci serve passare così tanto tempo online?
C’era chi già parecchi decenni fa aveva colto un aspetto fondamentale che riguardava l’utilizzo dei mezzi tecnologici (anche se ovviamente a quel tempo si riferisse principalmente alla televisione). Il sociologo Marshall McLuhan infatti nel 1967 con la celebre affermazione “Medium is the message” (titolo di una sua pubblicazione) aveva compreso che nel lungo periodo il contenuto di un mezzo perde decisamente di importanza rispetto al mezzo stesso nell’influenzare il modo in cui la persona si comporta e pensa rispetto sia al mezzo stesso ma anche rispetto a sé stesso, agli altri e alla società in generale.
In sostanza il dispositivo digitale o la piattaforma social o l’app, al di là dei contenuti che propongono, cambiano ciò che siamo grazie alle loro caratteristiche strutturali.
Se poco riusciamo a ricordare di ciò che vediamo, leggiamo o ascoltiamo online, è a motivo del fatto che una informazione per essere immagazzinata in memoria necessita di un certo tempo e di una attenzione focalizzata. Tuttavia brevità del tempo passato su un determinato contenuto (post, immagine, storia…) e molteplicità degli stimoli proposti, rappresentano due aspetti, propri del nostro essere in rete, che ostacolano i processi di consolidamento dell’esperienza.
Le nuove tecnologie plasmano ciò che siamo, non solo online, per il solo fatto di essere progettate in un certo modo.
E noi, siamo la nostra memoria.
L’uomo può parlare di sé grazie alla possibilità di attingere ad una memoria frutto di tanti ricordi di esperienze nel corso della sua vita. Ridurre questa possibilità impoverisce l’uomo e il suo essere nel mondo.
Il nostro invito per questo appuntamento potrebbe essere la solita e sacrosanta raccomandazione di tenere d’occhio ed eventualmente ridurre il tempo che dedichiamo, o che dedicano i nostri figli, ai dispositivi digitali.
Vorremmo tuttavia fare un passo in più in avanti. Di tutto ciò che leggiamo, osserviamo, ascoltiamo online… scegliamo una cosa e dedichiamole del tempo, concentriamo la nostra attenzione nel comprenderla meglio, nell’osservarla veramente, facciamone oggetto di approfondimento o di discussione con i nostri cari o amici. E se abbiamo dei figli, proponiamo loro di fare lo stesso.
Seppur nella rete, rimaniamo in noi stessi e nella relazione con gli altri.
Dott. Gabriele Di Marco