Con la nomina a Ministro dell’Istruzione di Valeria Fedeli, si è riaperto il dibattito sul cosìdetto gender e sul modo attraverso il quale nella scuola si dovrebbe raggiungere l’obiettivo dell’uguaglianza tra uomini e donne. Il ministro, facendo riferimento alla convenzione di Istanbul, individua negli stereotipi di genere, il luogo ove si annida il primo germe della violenza maschile contro le donne, motivo per il quale la stessa convenzione chiede agli Stati firmatari, tra cui l’Italia, l’inclusione nei programmi scolastici di temi quali parità tra i sessi, ruoli di genere non stereotipati, rispetto reciproco. Lo stereotipo di genere va, quindi, decostruito e in tal senso il Ministro è primo firmatario di un disegno legge che mira all’ “Introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università (1)” e vuole farlo proprio attraverso la decostruzione degli stereotipi con:
“la promozione di cambiamenti nei modelli comportamentali al fine di eliminare stereotipi, pregiudizi, costumi, tradizioni e altre pratiche socio-culturali fondati sulla differenziazione delle persone in base al sesso di appartenenza” (2)
A causa del continuo ripetere la parola “stereotipo” come se fosse un male in sé, ora constatiamo come sia connotata da un significato negativo a prescindere. Gli stereotipi vanno eliminati, punto. Sono negativi, coercitivi e primo stadio germinale della violenza contro le donne. Pertanto sono da eradicare quanto più precocemente, prima che si annidino e diventino rigidi. Tale operazione nell’ambito scolastico, secondo il succitato ddl, andrebbe attuata mediante formazione obbligatoria (Articolo 3) e la conformazione mediante autocertificazione dei libri di testo, compresi libri per bambini e favole alle linee del codice di autoregolamentazione POLITE (Articolo 5).
Ritengo questa concezione dello stereotipo riduttiva e (Sic!) rigida e la modalità attraverso la quale si vuole raggiungere uguaglianza tra uomini e donne, sbagliata.
Il termine stereotipo è formato dalla parola stereos che significa “rigido”. Infatti lo stereotipo assume sicuramente un ruolo negativo nelle relazioni e nella vita in generale, quando riduce coercitivamente la realtà dentro la gabbia di una rappresentazione rigida negativa (es. sulle differenze di genere: “tutte le bionde sono frivole”; “tutti i maschi sono rozzi”, etc etc) o che non prevede le eccezioni e la naturale variabilità se non come negative (“un uomo che ama i fiori, non è un uomo!” “una donna che ama il calcio deve avere qualcosa che non va, ahaha!”).
Ma questo è un modo limitato e piuttosto stereotipato di vedere lo stereotipo. Questo è stereotipo inteso come rigido. Eppure la parola stereos vuol dire anche -solido-, e questo ci può aiutare a vedere la questione da un’altra prospettiva. Una qualità che descrive un insieme di elementi, chiara e distinta e permette di identificarli e distinguerli fra gli altri, è una qualità utile da identificare dalla mente perché permette di crearsi rappresentazioni categoriali. Il fatto che le persone abbiano stereotipi e pregiudizi, cioè rappresentazioni del mondo e delle categorie di elementi che vi sono contenuti in base alla esperienza propria o a quella da altri tramandata, può essere inteso come il risultato di un adattivo modo di funzionare della mente: quello di costruire schemi e rappresentazioni che poi andranno ad influire sulla percezione del mondo aiutandone la elaborazione. Scrive a tal proposito Siegel, uno dei più accreditati neuroscienziati del mondo:
“le influenze dall’alto verso il basso hanno avuto un grande valore di sopravvivenza nella storia dell’evoluzione della nostra specie poiché permettono al nostro cervello di fare valutazioni rapide e di elaborare in modo efficiente le informazioni per poi avviare comportamenti che permettono all’organismo di spravvivere. Generazione dopo generazione, più i giudizi dall’alto verso il basso sono rapidi […]. La nostra storia personale può rafforzare i processi dall’alto verso il basso. Se in ogni momento della nostra vita affrontassimo le nostre esperienze come se fossimo un bambino che muove i primi passi, allora nono riusciremmo ad andare al supermercato […] il nostro cervello che apprende cerca di trovare somiglianze e differenze, di trarre conclusioni ed agire” (3)
Se questo è vero per gli adulti, è ancor più vero e determinante per i bambini. I bambini hanno bisogno di elementi solidi e permanenti sui quali cominciare ad orientare la loro percezione del mondo e l’organizzazione degli stimoli e delle esperienze, proprio perché non ne hanno di prestabilite. La prevedibilità li rassicura sul momento (le stereotipie dei bambini, i rituali) e li aiuta sul lungo periodo a formarsi una visione del mondo come qualcosa di prevedibile. Tutti gli psicologi clinici sanno che uno dei fattori di rischio di gravi scompensi psicologici è l’imprevedibilità delle figure di cura, l’imprevedibilità delle risposte, l’impotenza nei confronti di un mondo che non ha schemi e al quale non ci si può conformare, ma solo subirlo passivamente nel suo capriccioso mutevole divenire. Non a caso, una mente per la quale tutto è possibile e niente prevedibile, è la mente destrutturata dello psicotico che perde i riferimenti del reale. Costruire schemi rappresentazionali del mondo è utile e funzionale per i bambini ed è per questo che loro stessi tendono a formarli spontaneamente. Oltre a questo procedimento naturale, sicuramente una grande influenza l’ha l’educazione dei genitori, delle figure educative preposte e della cultura in generale. Interessante che la parola stereotipo, come si può trovare su Wikipedia,
nasce in ambito tipografico, inventata da Firmin Didot per indicare un metodo di duplicazione delle composizioni tipografiche e dei cliché: l’originale da duplicare veniva fortemente pressato contro uno speciale tipo di cartone resistente al calore, detto flano (dal francese flan), che ne riceveva l’impronta; nell’impronta così ottenuta si versava la consueta lega tipografica ottenendo una o più matrici in rilievo per la stampa.
Di fatto, si tratta di una tecnica di trasmissione della conoscenza. Solida. Non fluida. Di quella solidità e stabilità di cui hanno bisogno i bambini. Saper adeguare il proprio linguaggio alle capacità di comprensione e analisi dei bambini è un modo di prendersene cura in modo adeguato e sintonico. Non bisogna essere troppo capziosi con i bambini cercando di dare alle loro domande risposte che prevedono mille eccezioni e significati mutuabili. Per quello ci sarà tempo dopo. I bambini hanno bisogno di stampi, di trasmissioni di conoscenze solide, di certezze e per questo la loro tendenza a crearsi schermi rappresentazionali del mondo non va frustrata e osteggiata. Questo non vuol dire che attivamente vanno inculcati in loro gli stereotipi, ma, piuttosto, evitare di decostruirli intenzionalmente. Bisogna avere anche una prospettiva che sappia tener conto delle diverse esigenze che hanno i bambini a seconda delle diverse età. Io sono favorevole alla decostruzione degli stereotipi rigidi, ma quando farlo è cruciale e può fare la differenza tra un inutile ed ideologico progetto che risponde alle esigenze ideologiche di alcuni adulti e un laboratorio utile che risponde alle esigenze dei ragazzi e delle ragazze. Una stessa attività che decostruisce gli stereotipi di genere per un ragazzo adolescente può essere un’attività laboratoriale che facilita l’apertura mentale e, paradossalmente, anche l’identificazione al proprio genere di appartenenza (sono maschio, aborro il calcio, questo non fa di me un maschio a metà), mentre per un bambino alla scuola materna l’attività di vestirsi con indumenti tipici del sesso opposto può essere confusiva e non dargli quegli elementi di ripetitività che costruiscono lo schema rappresentazionale che permette di decodificare le esperienze e, attraverso anche di esse, sviluppare l’identità personale. Anche un documento come Standard per l’Educazione Sessuale in Europa, criticabile su molti aspetti, è molto chiaro nell’individuare nelle fasi della prima infanzia un momento sensibile per lo sviluppo, dato che nello stadio 0-3 anni: “Imparano che sono maschi oppure femmine (sviluppano l’identità di genere)”(4), mentre nello stadio 4-6 anni: “Bambini e bambine sanno di essere maschi oppure femmine e che sarà sempre così” e “Si fanno un’idea ben chiara e definita di “cosa fa un maschio” e di “cosa fa una femmina” (ruoli di genere)“(5). Seppur crediamo utile inserire esperienze e laboratori che aiutano i ragazzi e le ragazze ad avere maggiore flessibilità, ci sembra inopportuno farlo nel periodo durante il quale conoscono e strutturano la conoscenza della dualità maschile femminile, imparano di essere maschi o femmine e che a questa appartenenza biologica corrisponde un ruolo. Un buon obiettivo, come può essere quello dell’uguaglianza tra uomo e donna, calato in progetti e pratiche laboratoriali che non tengono conto delle peculiarità e attenzioni che i bambini meritano, può essere una cattiva operazione educativa. Per questo motivo con il gruppo di ricerca di Progetto Pioneer stiamo lavorando sulle differenti direttrici di sviluppo (emotiva, cognitiva, sessuale, relazionale, differenza di genere) in modo da poter stabilire obiettivi adeguati e consoni.
Con un pò di apertura mentale e qualche conoscenza basilare di psicologia dello sviluppo e possibile capire che lo stereotipo rigido che esclude, discrimina e riduce le possibilità d’incontro autentico tra gli esseri umani va combattuto, così come va evitata l’ideologica decostruzione degli stereotipi in età precoce che non risponde alla esigenze evolutive dei bambini.
(1) Oggetto del ddl Fedeli
(2) Art 1 comma 2 ddl Fedeli
(3) Daniel J Siegel, Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina
(4) Standard Per l’Educazione Sessuale in Europa, Colonia, 2010, pg 24
(5) Standard Per l’Educazione Sessuale in Europa, Colonia, 2010, pg 25